Tratto da:
Massimo Recalcati, La forza del desiderio, Edizioni Qiqajon, 2014
Venivo da un cattolicesimo moralistico, che da ragazzo non mi convinceva e da cui ho cercato di liberarmi attraverso il marxismo e attraverso la lettura di Nietzsche, quando sento da Lacan questa frase che su di me ha avuto l’effetto di uno Stoß – direbbe Martin Heidegger –, un urto, qualcosa che ti sveglia: «C’è un solo peccato, un solo senso di colpa giustificato: cedere, nel senso di indietreggiare, sul proprio desiderio». Non ci sono altri peccati: il senso di colpa più profondo, l’unico giustificabile è quello di tradire, venire meno, cedere sulla propria vocazione. Questo è imperdonabile, tutto il resto è perdonabile.
Quando qualcuno rinuncia ad ascoltare la chiamata del proprio desiderio e intraprende altre vie facendo finta di niente – in psicanalisi questo si chiama “rimozione” –; quando qualcuno cancella la chiamata del desiderio e prende altre direzioni come se niente fosse, come se questa chiamata non ci fosse mai stata, lì la vita si ammala. Tanto più la vita si allontana dalla vocazione del desiderio, tanto più la vita produce sintomi.
In fondo lo psicanalista cosa fa nel suo lavoro? Cerca di riconciliare il soggetto alla chiamata del suo desiderio. Quando dici: «Ma come? Io ho fatto tutto per gli altri, ho fatto tutto per esaudire il desiderio di mio padre, di mia madre, e sono insoddisfatto, infelice», hai tradito la vocazione che ti abita, la vocazione del tuo desiderio, non sei stato sufficientemente responsabile nell’ascoltare quella chiamata.
Ecco perché Lacan arrivava a un certo punto a dire: «La depressione – anche i padri della chiesa per certi aspetti dicono questo – è una viltà morale». E’ pesante dire questo. I depressi di solito provocano compassione e attenzione. Lacan dice al contrario che i depressi sono dei vili, che c’è una viltà nella depressione. C’è depressione, la vita si deprime quando si allontana dalla vocazione del desiderio; la depressione accompagna questo tradimento di sé.
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